giovedì 31 marzo 2011

Breve storia di incontri (e separazioni)

La lunghezza del nome con cui ci riferiamo agli oggetti
è inversamente proporzionale alla nostra vicinanza ad essi1

(non casualmente il nostro mondo è popolato di 'cose' e non di 'pinzillacchere' o 'asdrubali'. E men che meno da 'barbaggianerie').

Ovviamente questo è ancora più vero per il modo in cui ci rivolgiamo alle persone. Ma questo richiede una

Piccola premessa cosmogonica

Quando si crea un nuovo universo, tutto è pronto e lustro per essere nominato, per ricevere il suggello del battesimo dallo scopritore, per essere definito univocamente. Anche se il materiale è preesistente – e le molecole e gli atomi e gli elettroni, e gli anioni e i cationi (e la materia e l'antimateria) sono presenti da prima, e si tratta solo di una cosmica ricombinazione di elementi e di un nuovo pasticcio con tempi di cottura variati, e accelerazioni e decelerazioni, inediti accoppiamenti e accostamenti bislacchi di ciò che già c'era, senza nulla di veramente nuovo – anche se tutto questo non ha alcunché di davvero originale nelle sue componenti, è la modalità impastatoria a fare del processo creativo una novità (come? Ah, sì: 'postmoderno').
Dunque, quando queste cosmiche particelle che hanno già sperimentato universi e relazioni e, viaggiando nel vuoto spaziale, si sono scontrate combinate separate da altre particelle e hanno acquisito nomi e identità e funzioni, e si sono reciprocamente adattate ai contesti e allo spostamento di senso determinato dal bilanciamento di ruoli e competenze con altre particelle, quando, ancora una volta, ignorano la futilità del loro eterno cercare e viaggiare e di nuovo si ricombinano, sperando che il periodo di stabilità possa essere più lungo o forse accettando l'inevitabile transitorietà della fusione, allora vengono definite, escono dall'indistinto anonimato del vuoto pneumatico e vengono chiamate. Con un nome nuovo, ma che diventa il loro, per la durata breve dell'incontro.

(e ora, dato che la Piccola premessa cosmogonica è evidentemente sfociata nella storia vera e propria, si può passare alla

Storia vera e propria.
Inframmezzata da brevi notazioni cosmogoniche – b.n.c.)

'Pupa' era il modo in cui si riferiva inizialmente a me, e senza nessun intento offensivo o strumentalizzante. Nessuna reificazione (cosificazione per i latinofobi, in aumento). Era semplicemente il mio nome in quell'incontro di particelle, il modo in cui ero definita in quella relazione. Non mi dispiaceva. 'Piccolo' era il suo nome.

b.n.c.

Il nome può anche cambiare all'interno della relazione, e modificarsi in base alle forme diverse che assume l'insieme di particelle. L'evoluzione è rapida, a considerarla dall'esterno, e subito l'accomodamento degli elementi avviene alla ricerca soluzioni migliori, fino a raggiungere l'apice, l'ottimizzazione della funzionalità relazionale. Gli elementi si dispongono con simmetria perfetta, a simboleggiare l'accordo raggiunto, la sintesi migliore per quelle due particelle provenienti da diversi angoli cosmici.

s.v.e p.
'Cucciola', ero definita, 'Cucciolo' lo definivo.


b.n.c.

Finché poi l'unicità della combinazione delle particelle cosmiche, diverse e casualmente incontratesi lungo le reciproche inutili traiettorie, non acquista, con la stabilità, l'inserimento in una tassonomia standardizzata, ricevendone in premio la banalizzazione. Le due particelle non potrebbero essere più vicine, ma nemmeno meno originale la loro combinazione da due ad uno. Hanno creduto di costituire un nuovo elemento, sconosciuto nel cosmo, unico e particolare, e invece si ritrovano in un manuale di chimica, enumerati fra i possibili risultati della combinazione di due elementi come loro, modello di congiungimento diffuso e non più funzionale di altri. Accettano la banalità della definizione, illudendosi ancora che per loro sia diverso.

s.v. e p.

'Amore' era il nome di entrambi.

b.n.c.

Infine, dato che
La lunghezza del nome con cui ci riferiamo agli oggetti
è inversamente proporzionale alla nostra vicinanza ad essi

stancamente manifestano la massima vicinanza raggiunta, fingendo di ritenerla ancora prova di unicità e perfetta simbiosi.

s.v. e p.

Arrivammo a chiamarci 'A'.

b.n.c.

Alcune particelle si stabilizzano su questo risultato, paghe della fusione raggiunta e fiere di trovare la descrizione del proprio composto nei manuali di chimica, canonizzate dall'ufficialità. Proseguono nel cosmo abbarbicate nella loro unione di massima vicinanza e bassa particolarità, e, stanche della prospettiva di proseguire nel cosmo buio e freddo, sperimentano quella a cui è stato dato il nome di felicità.
Altre all'improvviso danno un colpo di reni e, incapaci dell'appagante e calda sistemazione duale, ritornano uniche, imperfette e indefinite, e sempre più scettiche.

s. v. e p.

Ora ho solo un nome proprio, ma quantomai generico.


______________
1L'autore dell'epigrafe dipende dal giudizio di chi la legge: è variabile come le scale di Hogwards. Se vi piace, è mia, altrimenti è anonima e l'ho inserita di malavoglia, perché le epigrafi proprio non mi piacciono.

giovedì 10 marzo 2011

URBAN GODS – Una Parigi da sogno




Pur essendo la scelta inusuale
Ad un dio fra tutti meno famoso
L’invocazione di esser cordiale
In queste righe di porgere oso.
Non per buona ispirazione vale;
Unica preghiera: non dia riposo,
Richiedo solo che duri la veglia
O[1]ra che Morfeo su di me regna.

Non di un dio si trattò, sulle prime, ma del pan au chocolat. Mi conquistò. Poi ci fu l’ammasso di ferraglia, su cui ci arrampicammo senza ascensore, per risparmiare. Fu sulla cima che diventammo protagonisti dell’aneddoto da raccontare a lungo, insieme, se non avessimo smesso poco dopo di rivolgerci la parola.
Ci si accalcava per accedere all’ascensore, necessario nell’ultimo tratto, e al nostro sbuffare sulla gran quantità di cinesi che cercavano di rubarci il turno, una donnina asiatica risentita protestò: “Not chinese, South corean!” E lui, con una gran faccia tosta, “for us, it’s the same”, e poi l’aggiunta (scarsamente) riparatoria: “…physically”.
Forse fu lì che lo incrociai, mi sfiorò passandomi accanto nello stretto ascensore. So solo che da quel momento la narcolessia si aggravò.
Il ritorno fu triste come tutti i ritorni, quando si è giovani. Non l’ansia di rivedere casa, ma l’angoscia di riscoprirla uguale, dopo aver conosciuto altro. Fu ancora peggio perché le cose precipitarono e noi smettemmo di vederci. Il viaggio a Parigi, sin dall’inizio, lo avevo visto come il canto del cigno della nostra amicizia: un ultimo, meraviglioso ricordo per chiudere l’album. Situazione di stallo, terribilmente adolescenziale e dunque fastidiosa, a cui porre fine. Ma la narcolessia si aggravò.
L’allontanamento si era imposto: io avevo cancellato la possibilità di qualsiasi ripensamento. Nuove persone, una nuova persona. Ma la sindrome dell’arto mancante opacizzava il gusto della novità. L’ebbrezza dura poco, se si è cominciato a bere per dimenticare.
Per fortuna la narcolessia si aggravò. Inizialmente si trattava di piccole perdite di coscienza, durante le quali immaginavo pezzi di conversazione consecutivi ai discorsi che stavo facendo da sveglia. Perché, ovviamente, mi addormentavo anche mentre parlavo con qualcuno, o ai concerti, agli spettacoli teatrali. A cena con estranei.
Mentre Bregovic suonava “Kalashnikov” mi capitò di sperimentare un nuovo livello di allucinazione ipnagogica (così pare che l’abbiano chiamata, pur non avendo idea di come curarla. Ma, si sa, battezzare le cose è sempre molto rassicurante). Parigi. Di nuovo. Lui, la tour, i “cinesi”. Ecco perché credo che Morfeo mi abbia sfiorato lì. Uno degli uomini intenti a scrutare il panorama attraverso un binocolo, o uno dei fotografi improvvisati che preferiscono mediare la loro percezione della realtà, non rendendosi conto di essere in un luogo pur di procacciarsi un ricordo del loro essere stati in quel luogo.
Fui consapevole di essere lì, questa volta, e potetti godere per un istante della gioia di avere una seconda possibilità. “If only I could turn back time” era la frase di una stupida canzone che continuava a ripresentarsi alle porte della mia percezione, che, ovviamente, adesso erano spalancate. Lui era lì con lo sguardo affettuoso che aveva perso da tempo, e di cui ero stata privata troppo a lungo. La tour, una seconda possibilità. Il mondo reale, il concerto, scomparvero. Le note si affievolirono, le immagini della gente in piedi a scatenarsi divennero rarefatte e le lasciai andare senza tentare di trattenerle. Fui io a correggere la sua gaffe: “…physically”, prima di salire per farci fare la foto con gli occhi a mandorla, ad immortalare la “figuraccia da italiani”. Non so quanto durò. Tornai al concerto, presa in giro per essermi addormentata al cospetto di Bregovic: “non sai cosa ti sei persa”. Lo sapevo.
Non cambiò nulla, apparentemente. Bari, le uscite, il consolidarsi di una relazione tutto sommato felice, l’instaurarsi della rassicurante quotidianità della vita di coppia. L’università, gli esami, la laurea. La narcolessia.
Morfeo dominava, sceglieva i momenti meno opportuni per trascinarmi nel suo mondo oppiaceo e sempre parigino. Iniziava con un torpore lieve, poi il richiamo era perentorio: impossibile resistere. Non che ne avessi voglia. Per quanto interessante fosse la conversazione che stavo affrontando, per quanto sconsigliato fosse addormentarsi davanti a tutti, ovunque, a lezione, durante la festa di laurea, era sempre piacevole lasciar andare la presa sulla realtà, consentire che l’indistinto si impadronisse dei contorni dei volti, che un silenzio ovattato si insinuasse nelle voci e nei suoni del mondo reale. Era una fuga dalla responsabilità di dover chiacchierare senza parlare di nulla, dall’etichetta, dal proseguire come su un nastro trasportatore lungo una direzione che sembrava sempre meno scelta. La vita scorreva, io ero trascinata per inerzia. Ero io a dormire, ma gli altri mi apparivano, nell’indistinto dell’addormentamento, sempre più manichini ossibuchivori. Sempre più l’identico ripetersi della scena parigina acquistava lo spessore della realtà, la dimensione dell’autenticità.
Ero ormai in grado di godere di ogni momento della situazione che continuavo a rivivere nel sonno. Non lo consideravo sonno, a dire il vero, era una alternativa, era un punto di snodo, un momento importante di cui volevo memorizzare ogni dettaglio, come se fosse un indovinello, una piega fondamentale del groviglio di concause che mi aveva condotta alla vita “vera”. Cominciai a spingere i confini di questa bolla temporale, estendendoli, stiracchiandoli. Riuscii a riconquistare pezzetti di istanti successivi, un po’ per volta. Fu naturale, avvenne senza sforzo. C’era sempre un impermeabile scuro nell’angolo della visuale parigina. Mai raggiungibile, sempre un ultimo svolazzo di stoffa impossibile da toccare. D’altra parte ero legata ai movimenti già compiuti durante quel viaggio, mesi prima. Indossavo la stessa maglia di lana celeste, identici pantaloni di velluto marrone a coste strette. Faceva sempre freddo, ma piacevolmente. Recitavo lo stesso copione che allora mi era venuto spontaneo, e ora gustavo il suono di ogni parola che sapevo di dover pronunciare, anticipavo nella mente i gesti che avrei fatto, e il modo in cui si sarebbe mosso lui. Riuscii ad arrivare al punto in cui mangiammo l’ennesima crêpe al cioccolato fondente e lui sorrise vedendomi impiastricciata di cioccolato. Un sorriso triste, di chi è consapevole del presente e della finitezza del tempo a nostra diposizione. Nessuna considerazione metafisica o escatologica, solo che lui aveva già deciso di confinare a Parigi il nostro qualunque-cosa-fosse, e riusciva con maggiore lucidità di me a vivere con pienezza il distacco.
Io non ne avevo avuto la possibilità, e così l’uomo dall’impermeabile me lo aveva consentito: mi offriva la possibilità di salutare quel binario morto delle mie scelte, mi riportava al bivio al quale avevo deciso di salire sul nastro trasportatore della mia vita attuale.
Il ritorno alla quotidianità mi lasciava sempre più spiazzata. Non riconoscevo subito i volti, e capitava di percepire con minore lucidità le stanze e le strade in cui mi muovevo nella realtà. Non ero del tutto sicura che si trattasse della vera realtà. Acquistava i contorni del sogno e del torpore anche l’ambiente della vita che avevo scelto; le persone erano sfumate, ed io ero meno presente, e mi limitavo ad abitare il mio involucro deambulante. Guardavo con distacco gli oggetti che maneggiavo, giudicavo come dall’esterno i discorsi in cui ero impegnata. La vita era sempre più altrove. Me ne stancai, volevo essere più presente a me stessa, e poi l’impermeabile era sempre visibile in qualche angolo della mia visuale, in qualunque dimensione mi trovassi.
Decisi di oppormi e rimasi sveglia più a lungo, con sforzo, anche quando il richiamo si faceva imperioso, quando sentivo di essere tirata verso la tour e cominciavo a sentire accenti francesi nel sottofondo, alle mie spalle, intorno a me. Durò per un po’, e mi riappropriai della quotidianità.
Erano un paio di mesi finora. Poi sono salita sull’auto per tornare a casa dopo un concerto rock, e l’ho visto per intero. Impermeabile, cappello scuro, mi offre un papavero e mi guarda in modo interrogativo, invitante. È al centro della strada, e si intravede la piramide di vetro del Louvre alle sue spalle. Forse le mie scelte sono state sbagliate, posso modificare il corso della mia esistenza, evitare gli errori. Mi addormento.


[1] Dedico a Palinuro il racconto. Ai non masticatori di Eneide per companatico dico solo che il sonno gli fu fatale. Lo capisco.

REA, IO E LA COERENZA


Quando ricevetti la telefonata provai solo l’eccitazione della novità.
Era domenica, era quasi estate e c’era aria di vacanza e svago, quella atmosfera di leggerezza frizzante che ti spinge a tirare tardi solo per chiacchierare, quel progressivo lasciar andare le responsabilità e proiettarsi verso vacanze oziose, prive di preoccupazioni.
Lo studio, sì, va bene. La tesi, d’accordo. Ma d’estate qui si ferma tutto e la vita, sebbene prosegua, lo fa in maniera pigra, distesa, stiracchiata. Le pause sono giustificate, come se per tacito accordo accettassimo tutti di risparmiare energie per sopravvivere al caldo, allo scirocco, alle serate afose sulle terrazze alla ricerca di un alito di vento, al frenetico sventagliarsi sui vestiti appiccicati al corpo.
Ricevetti la telefonata e fui curioso, quindi cercai il posto che mi avevano indicato.
Quando un amico ti avvisa del ritrovamento di un cucciolo, è inevitabile andare a vedere, accarezzare, dare consigli e poi, inevitabilmente, tornare alle proprie occupazioni, e dimenticare in fretta il piacevole episodio, trascinati dalla rassicurante quotidianità. Io ricordo benissimo quel pomeriggio pre-estivo, lo ricordo in tutti i suoi dettagli, mentre le mie caviglie stoicamente accettano di essere mordicchiate senza sosta, quando i dentini mancano l’obiettivo delle scarpe da ginnastica.
Arrivai spavaldo e curioso, poco dopo la telefonata. Non guidavo io e quindi portai sulle gambe durante il tragitto in auto quel cosettino cieco, che si lamentava quasi squittendo, e che del topo aveva anche un po’ la forma. Lo accarezzavo per rassicurarlo: avremmo cercato di nutrirlo, avevamo capito, poteva smettere di disperarsi. Intanto cercava di succhiare il mio braccio che lo reggeva per evitare che mi si arrampicasse su tutto il corpo, con quelle zampette rosee. Era bianco e nero, sul viso come una mascherina da ladruncolo e poi un punto sulla schiena e la sagoma come di un tanga. Ero convinto che fosse un maschio, e ora le accarezzo il pancino con due file di puntini.
Quella sera si tenne un gran concilio. Casa mia, da sempre porto di mare, perché in centro, per l’ospitalità dei miei, fu il quartier generale. Sui gradini per accedere al portone ci accampammo. Il cucciolo, degli strofinacci – doverlo tenere caldo era l’unica nostra certezza –, latte, guanti bucati, bottiglie di plastica piene di acqua bollente, cartoni-cuccia, il parere della “signora dei cani”, a cui ogni discorso riconduceva, amici, amici di amici, conoscenti, vecchi compagni di scuola che studiavano, avevano studiato o avrebbero studiato veterinaria. Consulenze su consulenze. Era femmina. Aveva qualche giorno, era stata dunque allattata. Parola nuova: colostro. Se aveva succhiato il colostro materno poteva sopravvivere. Sarebbe diventata gigante. Quel cosetto a forma di topo. Quella testolina ancora cieca dal muso roseo, che poi si sarebbe spruzzato di nero per diventare questo tartufo sniffante e umido.
La questione urgente era decidere dove piazzarla. Il canile era fuori luogo: troppi cani, e questo cucciolo troppo piccolo. Bisognava allattarla ogni tre ore o giù di lì. Ormai non potevamo fregarcene: lei era lì, ora dormiva, ora era un nostro problema. A gruppi sparirono tutti.
Adesso, per farmi le feste, si alza in piedi e appoggia le zampone anteriori sul mio petto, con la lingua penzoloni e gli occhi dolci che mi fregano sempre. Poi morde la mano con cui la accarezzo. Lo so che lo fa con affetto, ma ha dei dentini… Ha solo tre mesi, ma sale le scale, salta, riesce a mangiare il suo biscottino preferito poggiato sulla balaustra. Mi ricordo quando camminava strisciando, con un panciottone a tamburo. Adesso rincorre la palla e mi contende lo straccio, non rinuncia mai alla presa.
Quando sparirono tutti e rimasi con il mio amico responsabile del ritrovamenti, mi incazzai. Occhei, s’era scherzato, occhei, il cucciolo era bello e gli avevamo fatto un sacco di foto e video, ma era tardi e la giornata doveva finire. Bisognava decidere. Fra mamme isteriche, padri intransigenti, case in cui l’accesso ai cani era vietato, sorelle allergiche, impegni mattutini che escludevano l’allattamento notturno ed altre scuse varie e fantasiose, presi lo scatolo e, guardando minacciosamente il mio amico-ritrovatore-di-cani-abbandonati, dissi: “per stasera la tengo io, ma da domani non ne voglio sapere più nulla”. Adesso vado a fare una passeggiata con Rea.

martedì 1 febbraio 2011

Di questi tormentati tempi postmoderni...

Il primo post vi viene gentilmente offerto dal pc (pc! Orrore per noi Macchiani) di una stanza con temperatura tropicale intenzionalmente settata sul 'bollente-umido' per meglio agevolare l'avanzare della bronchite fulminante all'uscita, nel freddo gennaio dell'Anno sponsorizzato 'Sostanzialmente' (embé, non si può sponsorizzare una parola?).
    Sono ad un pc nella stanza tropicale a fingere di compilare un business plan così gli organizzatori del corso - per cui ho dovuto superare una doppia selezione - possono fingere di averlo organizzato e l'ente pubblico che ha scucito può dirsi orgoglioso di averlo reso possibile.

Il lungo preambolo perché su questo blog posso dare libero sfogo alla mia attitudine scrittoria da 'chiacchiera da bar', che magari non interessa a nessuno ma a me sembra l'unico modo di scrivere, a quanto pare - a meno di non annoiarmi io per prima leggendo quello che compare sullo schermo mentre scrivo.

Preambolo finito.
Inizio della parte seria in cui dico perché questo blog 'esiste' e perché io ne sono il Creatore.

Discutendo di postmodernismo con una certa persona che non vi dirò, siamo ovviamente finiti nella  impasse tassonomica: cosa è postmoderno e cosa non lo è? Il buon Eco sostiene che il termine sia buono 'a tout faire', e che lo si usi per indicare qualunque cosa piaccia a chi ne parla. A me è capitato più spesso di sentirlo applicato a letteratura che non piaceva a chi la definiva 'postmoderna', il che complica inevitabilmente le cose.

In ogni caso la soluzione trovata da me e dall'interlocutore filopostmoderno è, per lo più, quella dell'amore sconfinato per alcuni autori più o meno postmoderni - e se non lo sono o lo sono in parte poco male. David, Kurt, John, forse Chuck, e da loro in espansione per collegamenti con altre letture citate, come George, Johnatan, Ludwig, Dave, Douglas. Questa è l'infinitite.