giovedì 10 marzo 2011

URBAN GODS – Una Parigi da sogno




Pur essendo la scelta inusuale
Ad un dio fra tutti meno famoso
L’invocazione di esser cordiale
In queste righe di porgere oso.
Non per buona ispirazione vale;
Unica preghiera: non dia riposo,
Richiedo solo che duri la veglia
O[1]ra che Morfeo su di me regna.

Non di un dio si trattò, sulle prime, ma del pan au chocolat. Mi conquistò. Poi ci fu l’ammasso di ferraglia, su cui ci arrampicammo senza ascensore, per risparmiare. Fu sulla cima che diventammo protagonisti dell’aneddoto da raccontare a lungo, insieme, se non avessimo smesso poco dopo di rivolgerci la parola.
Ci si accalcava per accedere all’ascensore, necessario nell’ultimo tratto, e al nostro sbuffare sulla gran quantità di cinesi che cercavano di rubarci il turno, una donnina asiatica risentita protestò: “Not chinese, South corean!” E lui, con una gran faccia tosta, “for us, it’s the same”, e poi l’aggiunta (scarsamente) riparatoria: “…physically”.
Forse fu lì che lo incrociai, mi sfiorò passandomi accanto nello stretto ascensore. So solo che da quel momento la narcolessia si aggravò.
Il ritorno fu triste come tutti i ritorni, quando si è giovani. Non l’ansia di rivedere casa, ma l’angoscia di riscoprirla uguale, dopo aver conosciuto altro. Fu ancora peggio perché le cose precipitarono e noi smettemmo di vederci. Il viaggio a Parigi, sin dall’inizio, lo avevo visto come il canto del cigno della nostra amicizia: un ultimo, meraviglioso ricordo per chiudere l’album. Situazione di stallo, terribilmente adolescenziale e dunque fastidiosa, a cui porre fine. Ma la narcolessia si aggravò.
L’allontanamento si era imposto: io avevo cancellato la possibilità di qualsiasi ripensamento. Nuove persone, una nuova persona. Ma la sindrome dell’arto mancante opacizzava il gusto della novità. L’ebbrezza dura poco, se si è cominciato a bere per dimenticare.
Per fortuna la narcolessia si aggravò. Inizialmente si trattava di piccole perdite di coscienza, durante le quali immaginavo pezzi di conversazione consecutivi ai discorsi che stavo facendo da sveglia. Perché, ovviamente, mi addormentavo anche mentre parlavo con qualcuno, o ai concerti, agli spettacoli teatrali. A cena con estranei.
Mentre Bregovic suonava “Kalashnikov” mi capitò di sperimentare un nuovo livello di allucinazione ipnagogica (così pare che l’abbiano chiamata, pur non avendo idea di come curarla. Ma, si sa, battezzare le cose è sempre molto rassicurante). Parigi. Di nuovo. Lui, la tour, i “cinesi”. Ecco perché credo che Morfeo mi abbia sfiorato lì. Uno degli uomini intenti a scrutare il panorama attraverso un binocolo, o uno dei fotografi improvvisati che preferiscono mediare la loro percezione della realtà, non rendendosi conto di essere in un luogo pur di procacciarsi un ricordo del loro essere stati in quel luogo.
Fui consapevole di essere lì, questa volta, e potetti godere per un istante della gioia di avere una seconda possibilità. “If only I could turn back time” era la frase di una stupida canzone che continuava a ripresentarsi alle porte della mia percezione, che, ovviamente, adesso erano spalancate. Lui era lì con lo sguardo affettuoso che aveva perso da tempo, e di cui ero stata privata troppo a lungo. La tour, una seconda possibilità. Il mondo reale, il concerto, scomparvero. Le note si affievolirono, le immagini della gente in piedi a scatenarsi divennero rarefatte e le lasciai andare senza tentare di trattenerle. Fui io a correggere la sua gaffe: “…physically”, prima di salire per farci fare la foto con gli occhi a mandorla, ad immortalare la “figuraccia da italiani”. Non so quanto durò. Tornai al concerto, presa in giro per essermi addormentata al cospetto di Bregovic: “non sai cosa ti sei persa”. Lo sapevo.
Non cambiò nulla, apparentemente. Bari, le uscite, il consolidarsi di una relazione tutto sommato felice, l’instaurarsi della rassicurante quotidianità della vita di coppia. L’università, gli esami, la laurea. La narcolessia.
Morfeo dominava, sceglieva i momenti meno opportuni per trascinarmi nel suo mondo oppiaceo e sempre parigino. Iniziava con un torpore lieve, poi il richiamo era perentorio: impossibile resistere. Non che ne avessi voglia. Per quanto interessante fosse la conversazione che stavo affrontando, per quanto sconsigliato fosse addormentarsi davanti a tutti, ovunque, a lezione, durante la festa di laurea, era sempre piacevole lasciar andare la presa sulla realtà, consentire che l’indistinto si impadronisse dei contorni dei volti, che un silenzio ovattato si insinuasse nelle voci e nei suoni del mondo reale. Era una fuga dalla responsabilità di dover chiacchierare senza parlare di nulla, dall’etichetta, dal proseguire come su un nastro trasportatore lungo una direzione che sembrava sempre meno scelta. La vita scorreva, io ero trascinata per inerzia. Ero io a dormire, ma gli altri mi apparivano, nell’indistinto dell’addormentamento, sempre più manichini ossibuchivori. Sempre più l’identico ripetersi della scena parigina acquistava lo spessore della realtà, la dimensione dell’autenticità.
Ero ormai in grado di godere di ogni momento della situazione che continuavo a rivivere nel sonno. Non lo consideravo sonno, a dire il vero, era una alternativa, era un punto di snodo, un momento importante di cui volevo memorizzare ogni dettaglio, come se fosse un indovinello, una piega fondamentale del groviglio di concause che mi aveva condotta alla vita “vera”. Cominciai a spingere i confini di questa bolla temporale, estendendoli, stiracchiandoli. Riuscii a riconquistare pezzetti di istanti successivi, un po’ per volta. Fu naturale, avvenne senza sforzo. C’era sempre un impermeabile scuro nell’angolo della visuale parigina. Mai raggiungibile, sempre un ultimo svolazzo di stoffa impossibile da toccare. D’altra parte ero legata ai movimenti già compiuti durante quel viaggio, mesi prima. Indossavo la stessa maglia di lana celeste, identici pantaloni di velluto marrone a coste strette. Faceva sempre freddo, ma piacevolmente. Recitavo lo stesso copione che allora mi era venuto spontaneo, e ora gustavo il suono di ogni parola che sapevo di dover pronunciare, anticipavo nella mente i gesti che avrei fatto, e il modo in cui si sarebbe mosso lui. Riuscii ad arrivare al punto in cui mangiammo l’ennesima crêpe al cioccolato fondente e lui sorrise vedendomi impiastricciata di cioccolato. Un sorriso triste, di chi è consapevole del presente e della finitezza del tempo a nostra diposizione. Nessuna considerazione metafisica o escatologica, solo che lui aveva già deciso di confinare a Parigi il nostro qualunque-cosa-fosse, e riusciva con maggiore lucidità di me a vivere con pienezza il distacco.
Io non ne avevo avuto la possibilità, e così l’uomo dall’impermeabile me lo aveva consentito: mi offriva la possibilità di salutare quel binario morto delle mie scelte, mi riportava al bivio al quale avevo deciso di salire sul nastro trasportatore della mia vita attuale.
Il ritorno alla quotidianità mi lasciava sempre più spiazzata. Non riconoscevo subito i volti, e capitava di percepire con minore lucidità le stanze e le strade in cui mi muovevo nella realtà. Non ero del tutto sicura che si trattasse della vera realtà. Acquistava i contorni del sogno e del torpore anche l’ambiente della vita che avevo scelto; le persone erano sfumate, ed io ero meno presente, e mi limitavo ad abitare il mio involucro deambulante. Guardavo con distacco gli oggetti che maneggiavo, giudicavo come dall’esterno i discorsi in cui ero impegnata. La vita era sempre più altrove. Me ne stancai, volevo essere più presente a me stessa, e poi l’impermeabile era sempre visibile in qualche angolo della mia visuale, in qualunque dimensione mi trovassi.
Decisi di oppormi e rimasi sveglia più a lungo, con sforzo, anche quando il richiamo si faceva imperioso, quando sentivo di essere tirata verso la tour e cominciavo a sentire accenti francesi nel sottofondo, alle mie spalle, intorno a me. Durò per un po’, e mi riappropriai della quotidianità.
Erano un paio di mesi finora. Poi sono salita sull’auto per tornare a casa dopo un concerto rock, e l’ho visto per intero. Impermeabile, cappello scuro, mi offre un papavero e mi guarda in modo interrogativo, invitante. È al centro della strada, e si intravede la piramide di vetro del Louvre alle sue spalle. Forse le mie scelte sono state sbagliate, posso modificare il corso della mia esistenza, evitare gli errori. Mi addormento.


[1] Dedico a Palinuro il racconto. Ai non masticatori di Eneide per companatico dico solo che il sonno gli fu fatale. Lo capisco.

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