Quando ricevetti la telefonata provai solo l’eccitazione della novità.
Era domenica, era quasi estate e c’era aria di vacanza e svago, quella atmosfera di leggerezza frizzante che ti spinge a tirare tardi solo per chiacchierare, quel progressivo lasciar andare le responsabilità e proiettarsi verso vacanze oziose, prive di preoccupazioni.
Lo studio, sì, va bene. La tesi, d’accordo. Ma d’estate qui si ferma tutto e la vita, sebbene prosegua, lo fa in maniera pigra, distesa, stiracchiata. Le pause sono giustificate, come se per tacito accordo accettassimo tutti di risparmiare energie per sopravvivere al caldo, allo scirocco, alle serate afose sulle terrazze alla ricerca di un alito di vento, al frenetico sventagliarsi sui vestiti appiccicati al corpo.
Ricevetti la telefonata e fui curioso, quindi cercai il posto che mi avevano indicato.
Quando un amico ti avvisa del ritrovamento di un cucciolo, è inevitabile andare a vedere, accarezzare, dare consigli e poi, inevitabilmente, tornare alle proprie occupazioni, e dimenticare in fretta il piacevole episodio, trascinati dalla rassicurante quotidianità. Io ricordo benissimo quel pomeriggio pre-estivo, lo ricordo in tutti i suoi dettagli, mentre le mie caviglie stoicamente accettano di essere mordicchiate senza sosta, quando i dentini mancano l’obiettivo delle scarpe da ginnastica.
Arrivai spavaldo e curioso, poco dopo la telefonata. Non guidavo io e quindi portai sulle gambe durante il tragitto in auto quel cosettino cieco, che si lamentava quasi squittendo, e che del topo aveva anche un po’ la forma. Lo accarezzavo per rassicurarlo: avremmo cercato di nutrirlo, avevamo capito, poteva smettere di disperarsi. Intanto cercava di succhiare il mio braccio che lo reggeva per evitare che mi si arrampicasse su tutto il corpo, con quelle zampette rosee. Era bianco e nero, sul viso come una mascherina da ladruncolo e poi un punto sulla schiena e la sagoma come di un tanga. Ero convinto che fosse un maschio, e ora le accarezzo il pancino con due file di puntini.
Quella sera si tenne un gran concilio. Casa mia, da sempre porto di mare, perché in centro, per l’ospitalità dei miei, fu il quartier generale. Sui gradini per accedere al portone ci accampammo. Il cucciolo, degli strofinacci – doverlo tenere caldo era l’unica nostra certezza –, latte, guanti bucati, bottiglie di plastica piene di acqua bollente, cartoni-cuccia, il parere della “signora dei cani”, a cui ogni discorso riconduceva, amici, amici di amici, conoscenti, vecchi compagni di scuola che studiavano, avevano studiato o avrebbero studiato veterinaria. Consulenze su consulenze. Era femmina. Aveva qualche giorno, era stata dunque allattata. Parola nuova: colostro. Se aveva succhiato il colostro materno poteva sopravvivere. Sarebbe diventata gigante. Quel cosetto a forma di topo. Quella testolina ancora cieca dal muso roseo, che poi si sarebbe spruzzato di nero per diventare questo tartufo sniffante e umido.
La questione urgente era decidere dove piazzarla. Il canile era fuori luogo: troppi cani, e questo cucciolo troppo piccolo. Bisognava allattarla ogni tre ore o giù di lì. Ormai non potevamo fregarcene: lei era lì, ora dormiva, ora era un nostro problema. A gruppi sparirono tutti.
Adesso, per farmi le feste, si alza in piedi e appoggia le zampone anteriori sul mio petto, con la lingua penzoloni e gli occhi dolci che mi fregano sempre. Poi morde la mano con cui la accarezzo. Lo so che lo fa con affetto, ma ha dei dentini… Ha solo tre mesi, ma sale le scale, salta, riesce a mangiare il suo biscottino preferito poggiato sulla balaustra. Mi ricordo quando camminava strisciando, con un panciottone a tamburo. Adesso rincorre la palla e mi contende lo straccio, non rinuncia mai alla presa.
Quando sparirono tutti e rimasi con il mio amico responsabile del ritrovamenti, mi incazzai. Occhei, s’era scherzato, occhei, il cucciolo era bello e gli avevamo fatto un sacco di foto e video, ma era tardi e la giornata doveva finire. Bisognava decidere. Fra mamme isteriche, padri intransigenti, case in cui l’accesso ai cani era vietato, sorelle allergiche, impegni mattutini che escludevano l’allattamento notturno ed altre scuse varie e fantasiose, presi lo scatolo e, guardando minacciosamente il mio amico-ritrovatore-di-cani-abbandonati, dissi: “per stasera la tengo io, ma da domani non ne voglio sapere più nulla”. Adesso vado a fare una passeggiata con Rea.
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